BORSONI TRIDIMENSIONALI


Ma che diavolo ci faccio qui.

Parlava, ne parlava, ascoltava, ne ascoltava, di ogni. Guardava negli occhi l’amico, leggeva l’amica e i loro pensieri. Anche gli amici del bar: si vedeva, erano stufi, o forse perplessi. Era come se ci fosse stata un’epidemia di malcontento, di malumore, di malmostosità. Al tempo stesso, notava un panta rei assolutamente incoscente e convinto della controparte. Era chiaro, come in un clima di insicurezza civile, il social network avesse creato dei mostri, la cultura dei link, del commento, delle opinioni basate non sulla ricerca, ma sulla convinzione. Di cosa non si sa. Ci lavorava coi media e ne aveva avuto le prove: i suoi post senza maglietta avevano il 35% in più di lettori. Era come se si avesse scelto di delegare l’impossibilità di una vita piena, profonda, tridimensionale a quella digitale. Perché era chiaro, lì ce la facevano tutti, un po’ meno gli sfigati e i ciccioni. Giocare con un social non è reato, è divertente, è solo preoccupante quando l’autostima, la sicurezza si basa su un bel musetto. Anche perché era palese, la creazione di valore in quello che avveniva nel tridimensionale era bassa. Quante star, quanti artisti, e poi, nella vita reale… Molto, molto più semplice essere la star del social, usare la carineria pelosa, nell’accezione villosa e interessata del termine. Tante belle figurine da collezionare, per poi avere un’età, nessun legame che non fosse celebrativo, i coinquilini e non aver costruito nulla, una carriera, del valore aggiunto: solo il proprio misero personaggio, il paria che ha la rivalsa, gli amichetti con cui si sparla di tutto e di tutti. Che pena. Tanti attori protagonisti, che invece, nella realtà non si rendevano conto di essere delle piccole comparse in un mondo che non avevano gli strumenti per capire, lo stesso che li rende nuovi proletari, che invece dei figli hanno iphone, like, fans. Pagateci le tasse coi like. Costruitevi un futuro. I miei più cari auguri, vi serviranno, diceva con tono saccente.
Sì, si dava fastidio da solo, perché dover perdere tempo a combattere la mediocrità è urticante. La realtà non fa sconti a nessuno, e gli pareva sempre più palese il fatto che nessuno si stesse rendendo conto del fatto di ignorare il proprio potenziale umano e mentale per fare il salto. Beh, non proprio tutti, in effetti. Eppure ne ammirava la convinzione. Era tutto già visto, già fatto, così banalmente prevedibile che avrebbe voluto spiegare a Warhol che non era andata così. Magari la celebrità fosse durata 15 minuti. Magari. Ora invece si era trasformata in uno stillicidio. Abbiamo capito, abbiamo capito: sei figa. E dopo? E poi? E quindi? Eppure i convinti non erano del tutto colpevoli, erano solo i figli, i nipoti di una cultura democristiana del quartierino, un filo mafiosetta, ammiccante e sempre, sempre votata verso il basso.
Mancavano del tutto i contenuti, dappertutto. Tutto era noiosissimo. Ci si arrivava a conoscere dopo aver scopato. Che non c’è niente di male eh. Almeno la scoperta avveniva dopo un giro di valzer. Ma era come se tutte le cose si fossero invertite. Il cambiamento non è per forza errato, ma la domanda rimaneva: a che pro?
Non riusciva a capire perchè vedesse e ascoltasse due storie diverse della stessa umanità. Mancava il punto di incontro, o forse, semplicemente non accettava il fatto che la rappresentazione avesse avuto la meglio sulla realtà.
Non riusciva a dormire, e allora decise di mettere su i Led Zeppelin, Whole Lotta Love a tutto volume e preparare un borsone, da avere sempre pronto, vicino alla porta.

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